Notizie

Vincenzo Vallefuoco: il lievito della chirurgia napoletana

Trascorso il tempo del lutto inespresso, per i rigori dovuti al contagio, scrivo del mio maestro Vincenzo Vallefuoco, con difficoltà, perché anche se non c'è più resta per me e per sempre un giovane valoroso chirurgo.

Quando l'ho visto per l'ultima volta nel Museo degli Incurabili, qualche mese fa, era sempre sorridente, con la simpatia accattivante e con la sua voce a tratti cavernosa che gli usciva dalla mandibola volitiva, con quelle parole ripetute due volte, per rafforzare con il suo pensiero sempre determinato: mi parlò di suo figlio e s'informò di me.

Inforcava la sua bicicletta e mi incoraggiò a fare sport, e lì di rimando lo invitai a raccontare per noi la sua storia di chirurgo esemplare. Si schernì schivo: "Tu lo sai, mi è sempre piaciuto fare cose e non raccontarle". Secondo un principio antico di chirurgia ospedaliera.

E allora proverò io a farlo con i miei ricordi.
Lo conobbi da studente del secondo anno di Medicina, quando facevo parte di una schiera di volontari del pronto soccorso del Cardarelli: Emanuele Cameli, Vincenzo Fonzi, Franco Giordano, Fulvio Calise. Una sorta di "Ragazzi della Via Pal" che comparivano di pomeriggio e di notte, dopo le lezioni universitarie, per fare pratica e vedere i maestri all'opera: Giovanni Negroni, Corrado Cantalupo, Raimondo Pusateri, Pietro Scaglione e il mio futuro primario e maestro, Achille Breglia.
Tutti sotto la guida di un caposcuola, allievo di Ettore Ruggieri, il Prof. Giovanni Esposito, che è stato il fondatore della disciplina di Chirurgia d'Urgenza nell'Ospedale Cardarelli di Napoli.
Accanto a loro giovani assistenti: Vincenzo Napoli, Roberto Pennisi, Pino Borea.
Tra questi nostri punti di riferimento, comparve improvvisamente, in supporto all'equipe dell'urgenza, Vincenzo Vallefuoco, giovane aiuto, allievo di Agostino Trapani e Saverio Pescatore. Aveva 29 anni, rispettoso degli aiuti anziani ma fiero e convinto delle sue idee, mostrò subito un animo diverso dallo schema ingessato della chirurgia dei maestri più antichi.
Raccontava a noi giovani che tutto era possibile e non bisognava mai drammatizzare al tavolo operatorio e che si potesse portare a termine un atto chirurgico, anche complesso, con gesti semplici e sicuri. Divenne ben presto il mio mito, lo ammiravo anche perchè di umili origini aveva saputo scalare i gradi della carriera chirurgica senza mai abdicare alla sua fierezza e senza compromessi.
Aveva una marcia in più, perché aveva la competenza tecnica che gli consentiva di realizzare interventi di exeresi e ricostruzione in tempi rapidi con la sutura manuale, visto che in quegl'anni si muoveva con difficoltà l'era delle cucitrici automatiche.
Mi spiego, fare una resezione gastrica in urgenza per un'ulcera terebrante o perforata era affare che riguardava un chirurgo esperto di resezioni, che per lo più richiedevano un lungo periodo di formazione nella chirurgia di elezione. Lui veniva dalla scuola di un grande resezionista, il Prof. Saverio Pescatori della Quinta Chirurgia del Cardarelli, e come lui muoveva le mani in maniera così veloce che noi giovani studenti che gli facevamo da strumentisti non riuscivamo a seguirlo nei tempi.
Ecco perché nelle sue mani il perforato gastrico nelle prime ore o un'ulcera difficile da trattare con sutura diretta veniva resecato d'embleé in urgenza. Magari associandolo alla resezione la vagotomia: fu un'autentica rivoluzione, nel gruppo della chirurgia d'urgenza che prediligeva di principio interventi di minima, conservativi o di derivazione esterna. Negli anni '70, anche l'occlusione colica, nelle sue mani, rappresentava un'indicazione all'exeresi in un tempo, ricusando spesso la colostomia di protezione. Oggi, tutto questo, ci fa sorridere, ma costutuirono le prime esperienze di lavaggio colico per operatorio.
Gli altri lo imitarono.
A Vincenzo premeva soprattutto la tempestività dell'atto chirurgico. Gli ho visto portare in sala operatoria pazienti in shock emorragico gravissimo, disinfettare e mettere i telini mentre si cercava affannosamente l'anestesista per intubare: mi ha insegnato che il coraggio del chirurgo cambia la prognosi!
Gli ho visto suturare due volte il cuore, sempre con semplicità e senza enfasi.
La lampada scialitica era il sole che non tramontava mai nella sua giornata: al mattino in sala con Saverio Pescatore, il pomeriggio in clinica a Villa dei Gerani e notti intere passate al tavolo operatorio, spiegando a noi giovani i gesti semplici, mostrarando i clivaggi per una chirurgia sicura ed esangue.
Preferiva operare con i giovani, a cui con sistema meritocratico affidava i primi saggi col bisturi, sempre sotto i suoi occhi vigili.
Al terzo anno di Medicina, mi fece operare un'appendicite acuta e poi un'ernia, dopo, però, avermi ben interrogato sull'anatomia chirurgica; al quarto anno mi spiego come con il dito trovare il clivaggio dal letto epatico e fu così che conquistai la mia prima colecistectomia.
Come regalo di laurea, mi aiutò a trattare con una protesi "a pantalone" un'aneurisma dell'aorta addominale fissurata. Capirete la mia emozione quando ne parlo e quale affetto e riconsocimento mi muova...
Mettemmo a punto il trattamento in urgenza per l'avvelenamento acuto da acido muriatico, in quegl'anni ancora frequentemente usato per il suicidio. Dopo autopsie, rilievi autoptici e ricerche bibliografiche (se lui era il braccio, asseriva scherzosamente che io ero la mente del gruppo).
Incominciò a fare le prime gastrectomie ed esofagectomie d'urgenza, nella necrosi a tutto spessore da acido, salvando la vita a pazienti la cui sorte era ormai segnata.
Era proverbiale la sua velocità e l'esemplificazione di un problema chirurgico complesso al tavolo operatorio. Ha insegnato a giovani quali Roberto Palomba, Nicola Sangiuliano, a non avvilirsi mai.
Di fonte ad una massa addominale fissa o infiltrante i vasi non si perdeva mai di coraggio e, come un generale, usava la tattica di attaccare prima per via anteriore, poi di lato, poi alle spalle, per trovare la "couche" (amava molto questi intercalari francesi) che portava in sicurezza all'exeresi.
In realtà, compresi col tempo che era solo apparentemente spavaldo, mostrava una grande sicurezza in sè, ma in realtà era attento a gestire con prudenza l'intero processo terapeutico.
Sapeva drenare e ci aveva insegnato quanto valesse mettere bene un drenaggio...

Era l'idolo degli infermieri che lo stimavano per la sua disponibilità: gli affidavano i loro congiunti e se stessi. Parimenti, gli anestesisti ne apprezzavamo la velocità e sicurezza e devo dire che lui riusciva sempre a convincerli a passare una notte con lui in sala operatoria. Col sorriso sulle labbra riusciva sempre, quando di guardia, ad accedere in sala operatoria.

Credeva nel merito e, anche se impegnato politicamente nel suo comune di Mugnano nelle file di un piccolo partito, quello repubblicano, disdegnò sempre la politica che entrava prepotentemente nelle dinamiche ospedaliere. Nel Cardarelli godette di universale consenso, ma mai del sostegno della politica. Era imbarazzante questo giovane chirurgo che era già un maestro da aiuto e metteva in ombra i giganti dell'ospedale.
Non c'era intervento di chirurgia generale in cui lui non si fosse cimentato, operava incredibili gozzi immersi, apriva il torace secondo quello che aveva appreso da Agostino Trapani, e risultava ai miei occhi adatto a risolvere qualsiasi circostanza avversa, anche sull'emodinamica toracica.

Operando molto anche presso strutture private, adeguava la sua capacità tecnica ai mezzi a sua disposizione e riusciva a trovare soluzioni valide anche in carenza strumentale: soleva dire che le mani erano il migliore strumento del chirurgo.
Sono tanti i temi che lo hanno visto protagonista sul piano scientifico, però lui non amava la presenza ai congressi e forse riusciva più convincente attraverso i gesti in sala operatoria. Durante conferenze e/o convegni, senza alcun imbarazzo, contestava spesso verità scientifiche supportate da letteratura, ma inefficaci secondo la sua esperienza. Tenero maestro di tanti giovani, che lui faceva lievitare secondo una sua bilancia di valutazione, era severo con se stesso e rimurginava per giorni su un'eventuale leggerezza.
Spesso dovevo confortarlo quando era in tensione per il post-operatorio di un ammalato, e lui, criticamente, era abituato ad analizzare tutte le possibili vie di uscita di ora in ora per fronteggiare o prevenire una complicanza.
Sulla gestione delle complicanze post-operatorie era certamente uno stratega straordinario, capiva quando bisognava essere attendisti e quando bisognava, con sollecitudine, riaprire un paziente, ciò in un tempo in cui la diagnotica radiologica ed ecografica era inaffidabile.
Quando si avvicinava al tavolo operatorio per osservare una equipe al lavoro esprimeva le sue lodi o, scuotendo la testa, il suo disappunto. Spesso lo rimproveravo a bassa voce, per la stima e l'affetto che ci legava, per questa sua franchezza con la quale si procurava schiere di nemici. Lui, di rimando, rispondeva: "Ma è modesto... è proprio modesto".
Forse proprio per questo suo carattere intemperante e la sua schiettezza nei modi, con cui criticava anche l'ingerenza della politica nelle carriere mediche, gli fu negata la carriera nei reparti dell'ospedale Cardarelli, dove rappresentava l'allievo più degno della tradizione della scuola di chirurgia napoletana.
Gli toccò, così, l'esilio come primario all'Opsedale degli Incurabili. Piccolo, ma ricco di storia, lui seppe incarnare autenticamente la tradizione chirurgica incurabilina. Trasformò un ormai piccolo servizio di chirurgia, in un'autentica macchina produttiva di chirurgia di eccellenza. Era così orgoglioso di fare chirurgia epatica maggiore o pancreatica maggiore in quel suo piccolo ospedale, che diventò, così, un fiorente reparto di chirurgia. Intorno a lui crebbero giovani quali: Stefano Candela, Vincenzo Cifarelli, Marco De Fazio, Stefano Spiezia. Insomma, quella chirurgia divenne in poco tempo accorsata e capace di trainare l'intero ospedale.
Negli ultimi tempi in clinica privata ebbe tra i suoi giovani il Dott. Aniello Finizio.
Ebbe, poi, una breve ma intensa esperienza all'estero, presso l'ospedale Saint Antoine di Parigi, per la chirurgia colorettale. In quel tempo io gli ero accanto, finimmo, poi, in sala operatoria, a Villejiuf nel reparto del Prof. Henri Bismuth. Ricordo che Francò chiese a noi specializzandi italiani di effettuare una colecistectomia e lui mi pregò di operare al suo posto, sdegnando l'invito con una punta di orgoglio: "Fai vedere come noi sappiamo operare e usa il clivaggio come loro non fanno". Rimasi molto imbarazzato perchè i maestri francesi avvertirono una vena di criticità in quella figura alta che sovrastava la scena del tavolo operatorio. A fine intervento accennai ad una reazione, dicendo che si trattava comunque di maestri della chirurgia epatica e lui rispose: "Qui non abbiamo nulla da imparare. I loro risultati migliori sono ottenuti solo grazie alla diversa organizzazione". Così ponemmo fine all'esperienza...

Ricorderò sempre le sue mani all'opera eleganti e sicure nel gesto, sulla mano sinistra calzava un guanto di filo e suturando, ripeteva ritornelli ritmici, giocando sulle parole: dentro-fuori, fuori-dentro, dentro-fuori, fuori-dentro...era la colonna sonora della sua vita.

Al tavolo operatorio giocava con noi, scherzava mentre con rigore ed accuratezza insegnava.

Con noi giovani è stato sempre molto tenero e schietto, raccontandoci anche molti lati extraprofessionali delle sua vita.

Ora che non c'è più, sono convinto che abbiamo perso il lievito che fa crescere la passione dei giovani per la chirurgia. Diceva loro che la chirurgia era infida e traditrice come una prostituta, ma andava amata con passione totale.

Sono certo che sono tanti i chirurghi della nostra regione che portano nelle loro mani l'eleganza antica del maestro; anche quelli che per incomprensioni non lo amarono, senza rendersene conto, continuano a riportare indelebilmente nei loro gesti il codice genetico dei suoi.

È questo il miracolo vero della chirurgia: dal maestro all'allievo, all'allievo che diventa maestro.

A te, Vincenzo, non auguro il sonno tranquillo dei giusti, ma di raggiungere gli altri tuoi colleghi chirurghi in una sorta di limbo dove c'è una sala operatoria e dove saresti capace di convincere San Pietro ad operare angeli e diavoli.

Opera per sempre.

Gennaro Rispoli

Napoli 29 aprile 2020